Intervista di Rita Cristofari a p. Francesco Occhetta, Segretario Generale della Fondazione Fratelli tutti
Padre Occhetta il suo nuovo libro “Le radici della giustizia. Vie per risolvere i conflitti personali e sociali” è appena stato pubblicato. Non è la prima volta che lei scrive di giustizia. Perché ritornare su questo argomento?
È un tema che approfondisco da anni, lo insegno, conosco direttamente la realtà di molti istituti penitenziari. La giustizia è come la radice di un grande albero che nutre le relazioni personali e sociali, internazionali e politiche. Lo scriveva già Dante in un sonetto del 1307, senza una giustizia rivestita di misericordia la pace non può esserci.
Quando nella cultura la giustizia si eclissa e si omette di custodirla emergono i fantasmi del passato che Bertolt Brecht, rimaneggiando un testo di Martin Niemöller, ricorda con parole struggenti: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare». È sempre troppo tardi quando gli effetti dell’ingiustizia cambiano improvvisamente il corso della storia. Nelle democrazie moderne l’idea di giustizia inscritta nelle Costituzioni è come la vedetta sul ponte di comando di una nave per valutare la qualità e la vita della democrazia stessa. Il volume parte da qui.
Nel suo libro il lettore è preso per mano per riflettere insieme a varie forme di giustizia. Quale modello di giustizia auspica per il futuro?
Sostituire la spada con l’ago e il filo, perché la giustizia rammenda le relazioni che si sono spezzate, sia personali sia sociali. Altrimenti rimaniamo nello schema della vendetta e della pena esemplare che fomenta parte della politica in ogni parte del mondo. La giustizia retributiva dei codici tiene le vittime e il loro dolore al margine dell’Ordinamento. Il modello della giustizia riparativa che è nato negli anni Settanta del secolo scorso capovolge invece la concezione classica di giustizia e pone al centro dell’ordinamento il dolore della vittima, la pena da espiare umanamente per l’autore del reato, l’incontro delle parti per ricostruire le ragioni dell’accaduto, la responsabilità della società di dare un futuro a chi improvvisamente se lo è visto negato. Il padre della giustizia riparativa, Howard Zehr, la definisce «un modello che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo». Intercettare questa nuova cultura può fondare un nuovo modello politico di società.
Quale è il rapporto tra fraternità e giustizia riparativa?
Sono direttamente proporzionali, crescono insieme. Anzi la giustizia riparativa è la condizione per ristabilire la fraternità negata o tradita. Nel Vangelo, la fraternità la ricostruisce non una somma di idee ma le persone che scelgono di costruire il bene, la giustizia è il giusto che solleva l’oppresso e rimettendolo in piedi fa risorgere chi ha un bisogno: l’orfano e la vedova, il forestiero e il carcerato, l’affamato e l’ammalato.
La dottrina giuridica in favore della giustizia riparativa si basa su tre scelte di campo: il recupero dell’antropologia nell’ambito del diritto; la limitazione del diritto penale a reati «oggettivamente gravi», per esempio quelli contro la persona; la riscoperta del ruolo attivo delle vittime. È davvero una sorta di nuovo umanesimo sul versante penale che ha bisogno di essere insegnato nelle scuole e praticato in società.
Perché è importante restituire dignità umana a chi ha sbagliato?
Semplicemente perché chi ha sbagliato potrei essere io, inoltre l’altro è sempre una parte di me. Dopo i milioni di morti delle due guerre mondiali la filosofia lo ha ribadito. Per Paul Ricoeur la dignità è «dovuta all’essere umano per il semplice fatto che egli è umano», per Hannah Arendt è il «diritto ad avere diritti», per la filosofia non è “qualcosa” che ha un prezzo ma è “qualcuno” che ha “valore” e merita rispetto. La tradizione biblica ha elevato la dignità alla sua massima potenza perché l’uomo e la donna sono creati «a immagine e somiglianza di Dio» e accumunati dallo stesso destino. Una regola di giustizia sociale comune a molte culture è la regola d’oro «non fate agli altri ciò che non volete sia fatto a voi», che il Vangelo trasforma in una versione positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12).
Sembra teoria eppure ce lo insegna chi ha perdonato come la signora Gemma Capra, la vedova Calabresi, che ha affermato: «Può perdonare anche chi non crede perché il perdono è un sentimento che riguarda tutti». «I segni – ha aggiunto – arrivano a tutti, credenti e non. Il perdono è un dono che non si dà col ragionamento ma con il cuore. È un cammino lungo ma ho deciso che era una mia scelta di vita». Dalle sue parole sono così emersi gli effetti del perdono che non diminuisce la pena da scontare, ma umanizza la sua espiazione.
“Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Lei cita Voltaire per spiegare che la situazione in cui versano le carceri è la cartina di tornasole per misurare il grado di giustizia di una società. Qual è la situazione delle carceri in Italia?
Può essere migliorata, la riabilitazione a cui tende il tempo della detenzione rimane una utopia, dal carcere si esce peggiori di come si è entrati. Su 100 detenuti 62 ritornano a compiere reati. Mancano risorse economiche e di personale, ma soprattutto il carcere si dovrebbe limitare ai detenuti pericolosi, per gli altri che pagano i mali di un sistema che redistribuisce poco e aumenta le disuguaglianze, bisognerebbe investire di più sulle pene alternative e l’inserimento nei territori.
Senza voler criticare gli operatori penitenziari, che lavorano spesso in situazioni eroiche, l’Italia è tra i Paesi europei che spende di più per i propri detenuti. Ogni detenuto «costa» allo Stato 154 euro al giorno, di cui soli 6 euro per mantenerlo, ma solamente 35 centesimi vengono investiti per la «rieducazione» prevista dalla Costituzione. La voce di spesa più alta è quella per il personale della giustizia, pari a 45.772 unità; ammonta all’82,9% della spesa complessiva destinata alle carceri. Per lo Stato si tratta di una spesa ingente che supera i 3 miliardi di euro all’anno.
Nel volume cerco di rispondere alla domanda centrale: è davvero possibile recuperare un detenuto?
La proposta del suo nuovo volume è quella di “condividere un seme culturale per contribuire a far crescere l’amore per la giustizia e le ragioni della riparazione, per fermare la spirale dell’odio e della violenza irrazionale e la prepotenza dei poteri forti”. Siamo di fronte ad una conversione culturale sul tema giustizia?
Il primo passo di ogni riforma è sempre interiore, non si riformano le strutture se prima non si riformano i cuori delle persone che le governano. È un appello che nasce nella coscienza morale personale e comunitaria di un popolo. È l’esperienza del «sentire con» chi ha fatto e provocato il male.
Occorre fare un triplice investimento, cominciando dalla “formazione” alla giustizia. La scuola, le famiglie, le associazioni, le comunità ecclesiali, le società sportive, insomma la società civile, devono credere e aprire pratiche condivise di giustizia riparativa. È dall’esperienza che si comprende la teoria, non il contrario.
I Cammini Giubilari Sinodali, promossi dalla Fondazione Fratelli tutti in collaborazione con la Basilica di San Pietro, sono dedicati quest’anno proprio alla purificazione della memoria e hanno come punto di partenza il capitolo 7 – “Percorsi di un nuovo incontro” – dell’Enciclica Fratelli tutti. Si tratta di un cammino aperto a ogni essere umano, credenti e non credenti?
L’esperienza dei Cammini Giubilari Sinodali a cui partecipano molte realtà che nella società si occupano di giustizia, si basa sul promuovere due scelte: un’idea universale e una particolare di giustizia come due tensioni reciproche e inesauribili. La prima contempla un’opzione di prossimità fondata sulla compassione, che permette l’incontro personale e la possibilità di andare oltre le culture di appartenenza. La seconda opzione porta a considerare il “bisogno” dell’altro come paradigma di giustizia, una sorta di principio organizzatore della vita sociale. Il desiderio è quello di approfondire la fraternità intesa come ricostruzione dei legami personali, sociali, aziendali e politici. È per questo che la Fondazione Fratelli tutti è nata e opera.
Certo la sfida è grande e coinvolge credenti e non credenti, ma è noto la legge e il senso di giustizia non creano il paradiso, ma almeno arginano l’inferno. E insieme, questa sfida è possibile.