VATICANO, 19 NOV – Qui di seguito l’intervento di S.E. Card. Mauro Gambetti, Arciprete della Basilica di San Pietro, presidente della Fabbrica di San Pietro e della Fondazione Fratelli tutti in occasione della Lectio Petri del 19 novembre “A Corinto: Eros e Agape”.
Cosa preferite? Amare qualcuno che non vi ama o essere amati da qualcuno che non amate?
Non è facile rispondere. Se diciamo: “amare qualcuno che non ci ama”, entriamo a far parte della schiera degli aspiranti eroi che si espongono alla tristezza del non amore a se stessi e alla rabbia che l’ingratitudine provoca; e se diciamo: “essere amati da qualcuno che non amiamo”, affermiamo il valore della nostra esistenza, comunque meritevole d’amore, ma anche l’egoismo che non restituisce il bene ricevuto.
D’altronde, questa sorta di ossimoro dell’amore condensa la tensione quotidiana del nostro cammino di crescita umana e spirituale, iniziato nell’infanzia. Il bambino è amato da qualcuno che non ama: protetto, accudito, nutrito, baciato da una madre che saccheggia, sfrutta, divora. Viceversa, nello stato adulto, la madre ama qualcuno che non la ama: prende l’iniziativa, si dona, pazienta con un figlio che spesso può esserle ingrato.
Il binomio eros e agape si colloca in questo orizzonte dinamico dell’amore, nel quale – come scrive Benedetto XVI al numero 7 della sua splendida enciclica Deus caritas est – “eros e agape – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere”.
Offro qualche spunto di riflessione per addentrarci nel tema della serata.
Eros rinvia immediatamente al desiderio. Secondo il mito greco, Eros era stato concepito nel giorno della nascita di Afrodite dall’unione di Penia (povertà) e Poros (ricchezza). Per questo egli compendia in sé entrambe le dimensioni: quella di chi prova soddisfazione per l’energia vitale e l’indomita spinta alla ricerca che lo abitano e quella di chi continuamente avverte in sé la mancanza della bellezza (Afrodite) e quindi del bene. In tal senso, desiderare è una spinta potente, alla vita e di vita, che si fonde con l’insopprimibile bisogno di relazione, anzi che diventa relazione con un tu – il primo significante dell’esistenza – o con qualcosa.
Tuttavia, come scrive Platone nel Simposio: «per sua natura [Eros] non è né mortale né immortale, ma in uno stesso giorno, talora fiorisce e vive quando riesce nei suoi espedienti, talora invece muore, ma poi torna in vita a causa della natura del padre. E ciò che si procura gli sfugge rapidamente di mano, sicché Eros non è mai né povero né ricco […]».
Desiderare è vitale. Lo sanno i giovani che sfidano la storia seguendo una ‘stella’ e gli anziani che sanno ancora sognare perché sentono sempre più forte la ‘mancanza delle stelle’; lo sa chi è pazzamente innamorato e chi vive una vocazione religiosa proteso alla ricerca del volto di Dio; lo sa chi parte per un paese lontano affrontando il rischio della morte e chi vive lontano dai suoi cari. Ma desiderare può essere letale. Lo sanno tutti coloro che hanno pensato di trovare risposta definitiva alla profonda inquietudine del cuore nella conquista di un ‘oggetto’ di desiderio: sempre, una volta raggiunto, resta solo l’amaro in bocca. Se non si impara a non identificarsi con i propri bisogni e con gli oggetti/soggetti che possono soddisfarli, questi disporranno di me.
Senza educazione il desiderio può essere ingannevole e mortale. Occorre esercitare la libertà e il discernimento sui fini verso cui orientare la propria tensione esistenziale. Per farlo, è indispensabile porre una decisione radicale.
La esprimo con un’immagine. Il desiderio ti colloca in mezzo al guado di un fiume navigabile, le cui acque calme e placide sfociano nell’oceano. La sponda dalla quale ci si è mossi fin dall’infanzia per attraversare il fiume della vita è presidiata dai propri bisogni; la sponda opposta, che incuriosisce e attrae, è coronata da innumerevoli beni e doni che non sono di tua proprietà. Solo fermandosi in mezzo al guado si giunge a conoscere il vuoto scavato nell’intimo dalla mancanza, si può decidere di non trattenere nulla per lasciare fluire dentro e fuori di sé il fiume della vita e si può scoprire che il desiderio si dilata fino a che il cuore si congiunge alle acque dell’amore, in mare aperto.
È una questione di fede. Dante, nel XXIV canto del Paradiso, risponde così a San Pietro che gli chiede di manifestare la sostanza e l’origine della sua fede: «E io rispondo: Io credo in uno Dio solo ed etterno, che tutto ’l ciel move, non moto, con amore e con disio» (130-132).
Secondo una delle interpretazioni di questa terzina, Dio crea e sostiene sempre il mondo con amore e al suo amore corrisponde la forza cooperatrice del desiderio che egli suscita negli esseri creati e in particolare negli uomini. L’incontro tra questi due moti spande fragranze di profumo, illumina di bellezza, riempie di beatitudine.
D’altronde la parola desiderio parla delle stelle (dal latino: de-sideribus), dalle quali proveniamo o semplicemente siamo allontanati (de, una particella che può indicare l’origine o esprimere il moto da luogo). Dante le richiama alla conclusione di ogni cantica: uscendo dall’inferno quelle luci sono appena intraviste, lontanissime, eppure capaci di infondere speranza e di animare il desiderio di rivederle (cfr. Inf. XXXIV 139); alla cima del purgatorio esse sono già divenute meta sicura e la loro vicinanza dispone a salire per raggiungerle (cfr. Purg. XXXIII 145); al vertice del paradiso il poeta è come assimilato ad esse, fatto partecipe della loro vita celeste e del loro stesso splendore. Vale la pena riascoltare quest’ultima terzina della Commedia: «A l’alta fantasia qui mancò possa / ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII 145).
Unisco alle parole del Sommo Poeta il nostro augurio che, come diceva Papa Francesco nella Candor Lucis, il desiderio di ciascuno conduca all’approdo finale, alla verità, alla risposta ai perché dell’esistenza, “finché, come già affermava Sant’Agostino, il cuore non trovi riposo e pace in Dio”.