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Dalla giustizia alla fraternità: l’intervento della prof. Cartabia

  • Cammini Giubilari Sinodali
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  • (Trascrizione non rivista dall’autore)

    Grazie a Padre Occhetta, un saluto a tutti. Partirei, per qualche riflessione sulla giustizia riparativa, proprio dall’ultima considerazione di Padre Occhetta, cioè ogni riforma della giustizia è preceduta da qualcosa; da un cambiamento che è già in atto. La storia della riforma della giustizia riparativa in Italia, che ha contribuito quantomeno a portare all’approvazione della legge – decreto legislativo 150 del 2022 nel nostro ordinamento – insieme al lavoro fatto al Consiglio d’Europa nel dicembre 2021 – che ha portato a una dichiarazione d’impegno di tutti i paesi del Consiglio d’Europa a realizzare questi progetti di giustizia riparativa – non sono nati al Ministero, non sono nati nei 20 mesi in cui ho potuto servire il nostro Paese con il governo Draghi. Sono nati molto prima e hanno, in un certo senso, scavato dentro di me; mi perdonerà Padre Occhetta se in questo contesto tengo anche un po’ un registro personale, credo che l’uditorio sia un’ambiente giusto in cui spiegare anche un po’ la genesi di certi movimenti e di certi tipi di impegno.

    Come sono venuta a conoscenza e come mai la giustizia riparativa, che a mio parere è un vero cambio di paradigma nel modo di guardare alle esigenze di giustizia delle nostre società, mi ha interessato e ha mobilitato anche le mie energie sia come studiosa, sia laddove ho potuto servire nel mondo istituzionale. Come le cose più belle della vita, le più innovative e le più interessanti, nascono sempre come una sorpresa. Questa sorpresa all’origine della mia conoscenza della giustizia riparativa porta un preciso momento, il 2015, quando ho ricevuto da un caro amico che avrebbe voluto essere qui oggi ma che non è riuscito, Adolfo Ceretti, un libro dal titolo “Il libro dell’incontro”, che racconta di otto anni di incontri, appunto, tra alcune vittime degli anni di piombo e alcuni dei protagonisti della lotta armata. Questo libro è arrivato quando io ero alla Corte Costituzionale sul mio tavolo di cristallo; ricordo benissimo il momento, aveva una dedica molto speciale, del resto il suo autore è molto speciale. Diceva: “A Marta, so che capirai”. È una dedica “strana”: essendo un libro di diritto e occupandomi di ciò da una vita mi sono detta: “capirò”. Evidentemente alludeva a una novità, a una profondità, a un’intensità di parole, di esperienza che non facilmente viene compresa e che introduceva qualche elemento che mi avrebbe richiesto qualcosa di più della solita tecnica di lettura di un libro di diritto che una persona esperta in quella materia legge guardando l’indice e sfogliando un po’ per traverso perché sa dove va a parare. Lì non sapevo dove andavo a parare ma la cosa mi ha colpito tantissimo. La lettura di quel libro strano, fatto di saggi, riflessioni ma anche di tante testimonianze, di lettere, biglietti, appunti, di tanti generi diversi, mi ha molto colpito perché ha risuonato dentro di me come una luce, una promessa per guardare a qualcosa che andavo cercando da sempre, forse dal primo giorno in cui mi sono iscritta alla facoltà di giurisprudenza.

    Che cos’è quest’elemento di novità che va colmare un vuoto, una mancanza che in tutti questi decenni di vita da giurista – spesi in vari ambiti – ho avvertito sempre?

    Uno scarto. Uno scarto tra l’attesa, il bisogno di giustizia che c’è nel cuore umano di tutti – chiunque ha vissuto un’esperienza di ingiustizia, piccola o grande, traumatica o semplicemente passeggera – e la capacità di rispondere a quest’esigenza data dagli strumenti ordinari del diritto. Dalle cose più piccole, i conflitti nell’ambito del lavoro piuttosto che le piccole ingiustizie che avvengono nella vita sociale, alle grandi ferite che nascono soprattutto dai grandi reati di sangue: tutti quanti avvertiamo che la vita quotidiana ci urta con delle esperienze sempre brucianti di ingiustizia, anche se piccole, e le risposte che noi riusciamo a dare con tutti i nostri secoli, millenni di civiltà giuridica, anche quando sono perfetti, quando non c’è l’errore giudiziario, la negligenza, anche quando funziona la macchina della giustizia, lasciano un bisogno incolmato.

    Questo scarto l’ho notato innanzitutto dentro di me come studiosa, docente, giudice, come ministro, ma, soprattutto nel periodo in cui sono stata al Ministero, è un’esperienza che si è resa molto toccante e concreta nell’incontro sia con i detenuti sia – ancor di più – nell’incontro con le vittime. Mille volte ho visitato le carceri italiane e altrettante volte ho incontrato detenuti dentro quelle carceri che mi dicevano: “è un’ingiustizia questa condanna che mi è stata data”; quasi tutti lo dicono e non in mala fede, poi c’è da capire e vedere se è vero o meno, ma questa è un’altra cosa, è una questione della percezione che ne hanno. Quando si incontrano le vittime, soprattutto quelle di grandi fatti, disastri, di grandi reati, quel senso di un bisogno incolmabile tante volte si esprime con la richiesta di nuovi processi: “ma posso fare qualcos’altro, ministro? Posso andare ancora da un’altra parte? Questo giudizio è il primo grado, secondo grado, terzo grado e poi la Corte Europea; cos’altro si può fare?”. Naturalmente si deve fare tutto quello che si può fare ma, anche quando potevo esprimere qualche consiglio di tipo tecnico rispetto alle varie situazioni o quando raccontavo come mi battevo per permettere che la giustizia potesse avere il suo corso, la consapevolezza in me che il loro bisogno non sarebbe stato appagato fino in fondo, era molto chiara e nitida. Secondo me è un bisogno che la nostra società sente moltissimo ed è in questi termini che io mi spiego, almeno in parte, come mai di fronte ai grandi drammi, ai problemi che affliggono di più la nostra società – le violenze sulle donne, la tratta degli esseri umani, ecc. – immediatamente la risposta da parte di tutti i soggetti politici è: “aumentiamo i reati, alziamo le pene”. Secondo me questa non è la strada ma vorrei far capire come quella reazione, che si può liquidare con altre spiegazioni più superficiali, risuona nella popolazione; ha presa nella popolazione perché di fronte ai conflitti che attraversano la nostra società si avverte l’esigenza di far qualcosa; un bisogno di fare di più che diventa: “facciamo un diritto penale più severo”.

    Credo che dobbiamo guardare con questi occhi questa tendenza del nostro secolo che a mio parere non porta nella direzione che si vorrebbe raggiungere ma è espressione di questa distanza, di questo scollamento, di questo iato che c’è tra la dimensione infinita del bisogno umano di giustizia e la povertà dei mezzi che abbiamo a disposizione per rispondere a quest’esigenza. Le pene più severe sono un tentativo – certamente non soddisfacente – ma che ci rilevano il bisogno che c’è nel cuore di ogni uomo. Allora la domanda da farsi è: “c’è qualcosa di diverso, di meglio, di più nuovo dell’antica perpetuazione della risposta al male con il male, alla violenza con la violenza, alla ferita con la vendetta?”. Devo dire che il libro di Adolfo Ceretti, che più che essere un libro è il racconto di un’esperienza – ed è proprio questo aspetto la sua forza -, insieme alla testimonianza di Gemma Calabresi, sono stati per me i due fari che hanno letteralmente illuminato il mio percorso anche come Ministro della Giustizia, oltre che la mia riflessione su questi temi, e che mi hanno portato ad approdare lì, ovvero al tentativo di introdurre in Italia un’infrastruttura legislativa che potesse offrire a tutti quella possibilità di giustizia riparativa che è raccontata nel libro di Ceretti.

    Questa ricerca di un sistema sociale giusto, di rapporti umani giusti ha da sempre messo in moto l’umanità nella configurazione di forme di giustizia sempre nuove e, tra queste, io credo che dobbiamo, con molta attenzione, guardare a questo nuovo e antico paradigma, lo troviamo nella Bibbia come diceva Padre Occhetta, che ha qualcosa da dire anche al nostro tempo odierno. Perché dico che c’è questa ricerca incessante di forme nuove, di trasformazioni della giustizia anche nelle sue espressioni? Guardiamo le opere letterarie. Padre Occhetta ha ricordato il mio lavoro su alcune tragedie greche: per esempio, troviamo nelle Eumenidi, troviamo un passaggio straordinario, ovvero quello dalla giustizia intesa come vendetta alla giustizia del tribunale, dell’istituzione del tribunale che viene fatto dalla dea Atena per mettere fine a una tragedia familiare che non portava altro se non delitti di sangue, omicidi, matricidi, patricidi, uno dopo l’altro, e soprattutto conflittualità nella polis generalizzata. Anche in un’opera come la Divina Commedia, si trovano una vasta pluralità di espressioni della giustizia che sono sorprendenti. Quando pensiamo alla Divina Commedia, pensiamo automaticamente all’inferno e alla legge del contrappasso; tendenzialmente il peccatore, il reo, chi ha commesso il male, viene punito con una pena che replica il male che ha compiuto. In Dante, però, non c’è solo questo; perché se è vero che l’inferno è dominato da questo, poi ci sono degli altri punti della Divina Commedia dove si trovano delle eccezioni a questa regola: ad esempio Bonconte di Montefeltro, che nell’ultimo istante della sua vita versa una lacrimetta, invoca la Madonna e viene portato in paradiso, strappato alla furia dei diavoli che lo vogliono invece fagocitare nell’inferno.

    La cosa su cui vorrei soffermare la vostra attenzione è un passaggio che io trovo evocativo per la nostra riflessione di oggi, siamo nel canto XIII del Purgatorio, in cui viene ritratta questa donna invidiosa – l’invidia è uno dei motori peggiori del veleno dei rapporti sociali – Sapìa che si presenta a Dante e dice: “Sono Sapìa, con questi altri rimendo qui la vita rìa”. È un passaggio bellissimo perché introduce l’idea di una giustizia – e se volete anche di una pena – non come mera sopportazione di un male inutile e foriero di altrettanto male. Qui c’è un’idea di una giustizia come rammendo, l’idea di un periodo di tempo che prende atto del proprio male; un punto di partenza ineluttabile che è in questo caso lei che prende atto di quello che è stata la sua vitae. Ci sono poi due elementi che sono il cuore di questo paradigma nuovo della giustizia: il primo elemento è l’idea di un male come ferita e di una pena come tempo in cui ci si prende cura di quella ferita per poter rammendare, ridare vita a quel tessuto ferito. Il secondo elemento è che questo processo lo si fa con altri. Mentre gli altri nell’inferno di Dante sono un fattore non secondario della pena, sono coloro che ti infliggono il male che ti è stato assegnato, nel purgatorio sono dei compagni che ti permettono di poter portare la tua pena verso il suo destino e il suo compimento.

    Giustizia come rammendo, come riparazione, come ricucitura, come ristabilimento nelle relazioni. Non solo a livello personale, ma anche a livello di umanità, noi vediamo che questo bisogno di giustizia è talmente sproporzionato, sempre oltre le nostre capacità umane, che ha messo in moto nella storia umana una ricerca che ha portato ad esiti sempre diversi; per tantissimo tempo il paradigma della giustizia è stato solo vendetta, lo troviamo anche in Dante. A un certo punto c’è uno dei suoi parenti che non è mai stato rivendicato di un omicidio violentissimo e Dante sembra quasi promuovere la sua vendicazione perché non è accettabile non punire certe cose. L’idea della vendetta è il paradigma meno evoluto ma che risuona nella nostra umanità perché l’impeto di fronte a un male commesso è quello di reagire, salvo pochi episodi.

    Succedono normalmente delle reazioni di vendetta reciproca che sono alla fine distruttive su ogni fronte, infatti nella tragedia greca è potentissima la narrazione del paradigma della vendetta come fattore distruttivo, non solo per le persone implicate in questi regolamenti di conti del tutto non addomesticati, ma per l’intera società. Non siamo fermi all’epoca della vendetta, è chiaro, nessuno pensa che il nostro Paese si fermo a quel tipo di situazione: abbiamo i tribunali e abbiamo una giustizia in cui si frappone un terzo giudice ai regolamenti di conti tra privati. Ma questo è sufficiente? Chiedetelo a chiunque abbia avuto un’esperienza in un tribunale, anche per questioni di giustizia civile: per quanto giusta sia, la sentenza non chiude mai la vicenda che si è aperta con un atto di ingiustizia.

    Allora qual è l’elemento di novità che si introduce attraverso questo paradigma o si cerca di raggiungere con questo elemento della giustizia riparativa? Innanzitutto è una comprensione di cos’è l’ingiustizia, perché normalmente noi abbiamo l’idea che si tratti di infrangere una regola, andare contro la legge dello stato, violare un precetto normativo. Nell’idea di giustizia riparativa il reato è innanzitutto la ferita in un rapporto personale, quando c’è una vittima diretta del reato commesso, ma anche la ferita nella vita sociale, per esempio nei reati di corruzione. La rottura del patto sociale è l’elemento distruttivo, non ti senti più parte di una società quindi ti permetti di perseguire il tuo interesse a detrimento del benessere comune, soprattutto se hai delle responsabilità pubbliche. L’idea di giustizia riparativa è partire dall’idea che il fatto ingiusto è una rottura del rapporto, mette al centro le relazioni umane. Quanto abbiamo bisogno di ripensare alla centralità delle relazioni come elemento costitutivo del nostro modo di pensare anche al diritto o alla nostra vita sociale? Si ragiona in termini di fraternità, di legami. Credo che sia un elemento sorgivo di questa nuova concezione della giustizia riparativa che non va confusa con una forma di condono, di indulto, di indulgenza, di grazia (questi strumenti necessari ci sono in tutti gli ordinamenti). Questa però è un’altra cosa: qui non si tratta di evocare un diritto penale mite; si tratta di cambiare paradigma e di vedere che il reato, il male compiuto ferisce le relazioni umane. Siamo in un’epoca in cui queste relazioni sono tutte terribilmente ammalate, anche quelle più intime, tant’è che tra i reati che crescono in termini di numeri ci sono quelli tra i più vicini, quelli nei rapporti domestici. E questa è una cosa che non può non interrogare.

    La definizione che abbiamo messo nella legge di giustizia riparativa, che si appoggia a riflessioni ed esperienze fatte da molti anche a livello internazionale, dice così: “giustizia riparativa è ogni programma che consente alla vittima di reato e alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente in modo consensuale, attivo e volontario alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore”. Chi compare in questa forma di giustizia rispetto alla giustizia che noi conosciamo dei nostri tribunali? La giustizia penale che viene amministrata in tribunale, vede l’accusa, lo stato, la difesa del reo e un giudice. Quasi del tutto assenti sono le vittime, salvo la possibilità di costituirsi come parte civile solo ai fini del risarcimento del danno, ma non entrano nella preoccupazione del diritto e della giustizia penale; questi sono preoccupati di punire il colpevole, il focus è quello, e indirettamente quindi di risanare il malaffare in modo tale da dare maggiore sicurezza. Il focus della giustizia penale resta nel rapporto tra lo stato e il colpevole. Nella giustizia riparativa entrano due soggetti che non ci sono, se non accidentalmente, ovvero le vittime e la comunità. Una questione di un reato commesso non è una questione privata del poveretto che è stato in quel momento colpito; è una questione che ci riguarda tutti. C’è un passaggio del cardinale Carlo Maria Martini nel libro “Un’altra storia inizia qui”, che prende a prestito una frase di Paul Ricoeur, in cui il cardinale Martini parlando della giustizia dice: “bisognerebbe iniziare a pensare alla giustizia pensando al fatto che non si tratta di giustiziare il colpevole ma di far giustizia alle vittime.”

    Tutta la nostra giustizia penale è invece sbilanciata soltanto sulla questione di “giustiziare”; magari non di giustiziarlo nei termini brutali che questa parola evoca, ma quella efferatezza, quella severità del diritto penale che andiamo cercando è lì che tende a portarci, tanto quanto al fatto di rispondere al bisogno di giustizia di chi è stato ferito. Per questo la giustizia riparativa, appunto nel decreto che noi abbiamo approvato, si spira anche a tutta quella grande riflessione che c’è a livello internazionale su come dare voce alle vittime, alle loro esigenze, al loro vissuto. Non soltanto come testimoni del processo: certo che vivere, dare la loro testimonianza è anche una gran fatica, chiedete a chiunque abbia dovuto testimoniare nel processo quanto è un rivivere il dolore; certo che le vittime chiedono innanzitutto che i processi siano fatti. Ricordavo prima il mio incontro con Gemma Calabresi: il momento in cui ci siamo conosciute anche personalmente è stato quando io da ministro della giustizia e lei da protagonista di queste vicende, cercavamo di riportare in Italia alcuni esponenti degli anni di piombo, ancora rifugiati in Francia, chiedendone l’estradizione. Il presidente francese Emmanuel Macron ci aveva concesso di rimuovere gli ostacoli, poi la Corte di Cassazione francese ha bloccato tutto. Nel dialogo con lei – che aveva fatto questa bellissima intervista con suo figlio – emergeva che lei è stata quella che forse più di tutti gli altri è arrivata fino al vertice del perdono, che non è cosa da tutti di fronte a una situazione di questo genere; lei era ferma nel dire: “certo che occorre che questi possano ritornare in Italia perché la verità processuale serve”. Poi lei aggiungeva: “non perché mi interessi vedere mandare in carcere degli ottantenni ormai malati ma per ripristinare la verità storica dei fatti.”

    Questo è un punto di partenza che è indispensabile, ma su questo occorre innestare qualcos’altro perché anche la condanna non appaga quel bisogno. Forse qui possiamo capire una delle caratteristiche della giustizia riparativa così come l’abbiamo configurata: non ha la pretesa di sostituirsi alla giustizia penale “tradizionale”, ma di offrire un percorso parallelo da intraprendere con la massima libertà da parte delle vittime e degli autori di reato, nel massimo rispetto anche dei tempi. Infatti nella definizione che vi ho letto è scritto: “di partecipare le vittime e le persone indicate come autori di reato, oltre che la comunità, liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario”; cioè non si può forzare. La legge non può imporre un percorso di giustizia riparativa. L’unica cosa che può fare la legge è offrirti la possibilità di farlo e la libertà deve essere rispettata non soltanto sul “se”: se una vittima non se la sente, non se la sente. Ma anche sul “quando”: il fattore tempo è un fattore importante in queste cose. Ci sono persone che reagiscono in modo diverso, la stessa Gemma Calabresi racconta nel suo libro che nei primi anni lei sognava di potersi infiltrare nei gruppi armati, diventare una di loro per poterli ammazzare tutti. Leggetele quelle pagine: lei aveva dentro questo bisogno di vendicare una cosa che le aveva strappato il marito con tre figli piccoli, una cosa di una violenza inaudita. Come si fa a non avere dentro questa reazione? C’è voluto un percorso di anni per far sì che si potesse arrivare a questo vertice, a diventare una delle testimoni più straordinari, secondo me, che abbiamo in Italia di che cosa vuol dire prendere sul serio la propria umanità e oltrepassare il dramma e la ferita che ti lascia un trauma di questo genere.

    Per cui quella riparativa è una giustizia complementare e non sostitutiva della giustizia tradizionale di cui abbiamo bisogno, di cui non possiamo fare a meno per una serie di motivi; un percorso da intraprendere liberamente, motivo per il quale gli avvocati e i giudici devono informare le parti di questa possibilità, ma nel pieno rispetto. Il successo di queste forme di giustizia riparativa non si vedranno con i grandi numeri, non sono le statistiche che noi dobbiamo andare a guardare, ma la novità nel cuore umano di qualcuno.

    L’altra cosa che vi vorrei dire è che a mio parere, come vi dicevo prima, non è una giustizia che va confusa con forme di clemenza o con una forma di diritto penale mite, non c’entra nulla; anzi, se voi ci pensate è una giustizia molto esigente perché consiste nella possibilità offerta alle vittime, agli autori di reato di incontrarsi, di guardarsi negli occhi e di raccontarsi il proprio vissuto. Ci sono tante testimonianze, anche tanti film che documentano questi incontri; sono impressionanti. C’era una ragazza irlandese che ha subito una violenza sessuale e che voleva incontrare il suo carnefice e la prima cosa che gli ha chiesto è stata: “perché a me?”. Lei gli ha raccontato le sue paure, il suo vissuto, tutti gli anni successivi. E lui balbettando, provava a rispondere che cosa l’avesse mosso fino a lì, cosa che gli era scattato; aveva visto le scarpe rosse di lei. Quindi vissuti di mondi che sono degli incontri, pur diversi, ma di sofferenze drammatiche. Ma provate immaginare cosa vuol dire per un autore di un reato incontrare la propria vittima. Non è una cosa banale. Altro è “pagare”, scontare la pena passando un po’ di anni in prigione. Altro è guardare la persona a cui ho distrutto quello che c’era prima, guardandola negli occhi. Per questo dico: non è una giustizia per persone che non sanno veramente come va il mondo e che vogliono essere falsamente ottimisti sul genere umano. No, è una giustizia che guarda in faccia gli abissi del cuore umano; ma che sa anche che da quell’incontro può nascere un’esperienza di liberazione per tutti.

    Qui vorrei chiudere: nella legge abbiamo scritto “esito riparativo”. Tante volte le persone pensano che alla fine di questi incontri vittime e autori dei reati vadano fuori si stringono la mano, diventano amici ma non è detto. Può succedere in qualche raro caso che si incontrino, come appunto la vedova Calabresi e la vedova Pinelli che si sono incontrate ben due volte, invitate dai due Presidenti della Repubblica. Può succedere ma non è nelle mani umane, non possiamo avere la presunzione di creare una specie di meccanismo che permetta la riconciliazione e la pace. Quello che normalmente accade, e che racconta chi ha partecipato a questi progetti di giustizia riparativa, è il liberarsi dalla prigionia del ruolo. L’uno di essere ridotto come persona solo all’autore di un reato. Tu sarai pure uno che ha commesso il reato ma la tua persona ha dentro qualcosa di più che non può essere definita per sempre, ingabbiata per sempre solo come autore di quel reato, anche se te la porti addosso. Un detenuto che avevo conosciuto mi diceva: “Io sono un ex mafioso ma non potrò mai definirmi un ex assassino”: te la porti dentro ma non sei più solo quello. Anche da parte delle vittime c’è un’attesa di liberarsi dal guardare a sé stessi soltanto come definiti da quel fatto traumatico che ti ha cambiato la vita; è necessario per ricominciare a vivere. Un giorno in un dialogo tra Agnese Moro e Adriana Faranda, che sono tra l’altro diventate molto amiche, avevo chiesto a loro: “scusate parliamo di giustizia riparativa, ma cosa si può riparare dopo fatti come quelli di cui voi siete state protagoniste. Cosa c’è da riparare in casi come il vostro?”. Agnese Moro mi ha guardato come si guarda un marziano e mi ha detto: “Come cosa c’è da riparare? C’è da riparare le nostre vite”.

    E lì, le ho chiesto di raccontare e lei racconta con quest’immagine. Dice: “Perché quello che è successo con la morte di mio padre in quell’assassinio del maggio ‘78, è che quella scia di sangue non ha soltanto offuscato la mia vita da quel momento in poi ma anche tutti i ricordi precedenti. Quando guardavo le fotografie di quando ero bambina insieme a mio padre era come se fossero tutte macchiate di sangue”. Quel percorso faticosissimo – che lei racconta anche con una certa crudezza – “mi ha liberato – dice –  dall’essere sempre, soltanto, esclusivamente la vittima di questo gravissimo fatto che ha segnato la mia vita personale e gli altri.”

    Allora per riassumere, viviamo in una società molto conflittuale, in questo capitolo della Fratelli tutti si parla di conflitto inevitabile. La nostra società ha una conflittualità particolarmente marcata a tutti livelli, soprattutto nei giovani delle nuove generazioni; c’è questa iper-reazione a tutti piccoli contrattempi e contraddizioni della vita. Abbiamo bisogno di qualcosa che ci aiuti a guardare al conflitto, alla rottura, all’incidente non come a qualcosa che è inesorabilmente destinato a non rimarginarsi più. Ma dico, non abbiamo un’altra possibilità? Non possiamo, di fronte alle fragilità della nostra umanità, ai nostri rapporti che si ammalano, alle nostre rotture, provare a fare quello che fa Sapìa, cioè rimendare qui con gli altri la mia vita rìa?

    La giustizia riparativa è un po’ questo che vuole offrire: una possibilità di ricominciare, di riparare, di rigenerare, di ricostituire dove il prefisso “ri” di riparativa è un guardare avanti al futuro e non rimanere inchiodati solo al passato.