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Dalla giustizia alla fraternità: l’intervento di padre Mario Picech S.I.

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  • Inizio questo breve intervento cercando di rileggerle la mia esperienza a contatto con i sistemi carcerari, (decennale con quello messicano e di pochi anni con San Vittore a Milano) prendendo spunto dalle parole di Papa Francesco.

    Mi soffermo su queste poche frasi della ‘Fratelli Tutti’: “In molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia.

    1. Nel testo si parla di processi: Quali i cammini avviati di cui sono testimone?
    2. Di ferite: Quali sono le ferite da guarire? Di quali ferite potrò parlare?

    Dico subito che potrò parlare solo di quelle dei detenuti: di coloro che le hanno provocate.

    Ed anche di chi le ha ‘incontrate’, in modo indiretto, attraverso l’ascolto. È la mia esperienza.

    1. E di guarigione. Chiedendosi come si potranno rimarginare.

     IL MIO INCONTRO CON I DETENUTI –  Mi sono ritrovato a visitare, negli anni, la gran parte delle carceri di massima sicurezza del Paese (8 dei 12 centri federali presenti nella Repubblica messicana) e questo, dopo una permanenza di otto anni in un’isola carcere, chiamata Islas Marias, nel Pacifico.

    Quella nell’isola fu un’esperienza straordinaria di condivisione di vita di noi gesuiti con i detenuti. Una convivenza, non solo nostra, ma di tutto il personale sia quello dedito alla sicurezza, sia quello di carattere amministrativo, oltreché dell’area giuridica, educativa, e sociale a supporto dell’Istituzione. Fummo il primo gruppo di religiosi a vivere in pianta stabile in un carcere federale. Il complesso penitenziario si chiuse nel marzo del 2019.

    La straordinarietà dell’esperienza consistette nel dare responsabilità ai prigionieri. (un’isola 150 km quadri – l’isola d’Elba ne ha 220 – non la si può attendere con il solo personale dell’Istituzione.) I detenuti avevano la mansione di cuochi, magazzinieri, addetti agli impianti, facevano gli autisti, … anche per il personale; poi meccanici, muratori, professori. L’isola non avrebbe funzionato senza il loro contributo. Erano parte del sistema logistico, ma anche di quello educativo.

    Dopo la chiusura dell’Islas Marias, fui invitato a nei diversi Centri federali a svolgere soprattutto il mio ministero pastorale come sacerdote. Oggi aiuto il cappellano di San Vittore a Milano e continuo a collaborare con i direttori delle carceri messicane nell’accompagnamento spirituale dei detenuti; ospite nei diversi centri federali.

    L’INCONTRO CON I FUNZIONARI –  Ci si potrebbe soffermare molto su come è organizzato il sistema carcerario messicano federale e sul suo rinnovo delle regole di detenzione.  Ora le carceri si chiamano Ceferesos Centri federali di recupero sociale. Sono passati più di dieci anni da quella riforma che ha come perni 1. la dignità del detenuto e 2. la sua integrazione sociale.

    Non compete a me parlarne non avendo nessun incarico istituzionale. Voglio però raccontare un piccolo episodio che può essere emblematico della sensibilità che ho incontrato in alcuni funzionari. Non entro nei particolari, però provo a riportare le parole di una telefonata: “Padre, abbiamo pensato a lei per accompagnare una persona altamente pericolosa. È in uno stato di agitazione. Vuole uccidere me, il direttore del carcere: cerchi di volergli bene”.

    Questa richiesta mi ha continuato a rimbalzare negli anni con tanti interrogativi: Cercare di voler bene a chi ci vuol far del male. Perché questa attenzione? Da dove nasce questa forza? Probabilmente fa parte della deontologia dei dirigenti pubblici: è loro dovere proteggere ed aiutare: Ma a quale costo!

    Negli ultimi anni ho assistito alla morte di diversi funzionari del sistema federale: una strage di cinque semplici operatori uccisi nel giorno del dia della madre, nel Cefereso di Morelos, poi il direttore di Puente Grande, la direttrice dell’area tecnica in Chiapas, il direttore dell’area giuridica a Guanajuato. E parlo solo dei funzionari che ho conosciuto, e che, negli anni, mi hanno accompagnato nell’incontro dei detenuti più sorvegliati. Ho incontrato persone che si preoccupano di chi può farli del male, di chi li vuole uccidere. Questo fatto mi ha spinto a collaborare maggiormente con loro.

    L’ASCOLTO E LA FERITA – Cosa ha significato per me entrare in contatto con i detenuti?

    Sicuramente immergermi in tanti interrogativi sulla realtà del potere e sull’esercizio della violenza, ma anche riconoscere, con sorpresa, quanto il desiderio di far del bene sia radicato nello spirito umano. Sopito, nascosto, ingabbiato, ma basta un incontro significativo per farlo risvegliare.

    Bastano persone capaci di far vedere che sono disposti a fare sacrificio per gli altri, per fare emergere ‘la parte buona’ di ognuno di noi.

           Cosa ha significato per me questo contatto?

    Riporto ancora le parole del Papa: Un nuovo incontro non significa tornare a un momento precedente ai conflitti. Col tempo tutti siamo cambiati. Il dolore e le contrapposizioni ci hanno trasformato”.

    Papa Francesco fa riferimento alle relazioni di riconciliazione tra parte offendente e parte lesa, ma, in realtà, qualsiasi incontro produce una trasformazione. A maggior ragione in quelli che avvengono in un sistema carcerario dove si entra a contato con chi sente in sé il peso del male compiuto.

    Il contatto trasforma. Ha cambiato anche me, che del conflitto ho ricevuto solo una testimonianza indiretta.

           Come avviene questa ‘trasformazione’? Cos’è avvenuto in me? Partecipare di un dolore, di una sofferenza, di una ferita inferta o subita, che cosa provoca? Cosa ti succede?

    Assorbi. Accumuli dolore, morti, violenze. Non ne vorresti conoscere i dettagli, ma alle volte alcuni detenuti sentono il bisogno di raccontarteli. Ascolti. Proteggi, chi parla o si confessa, dallo sguardo dei compagni. Accogli le persone e con esse i loro racconti spesso di una violenza inaudita.

    Il contatto trasforma? Sì, ‘ferisce’. Quell’ascolto ti cambia? Sì, ti segna … anche se in apparenza non sembra. Me ne resi conto con l’esperienza del covid di qualche anno fa quando mi ammalai in modo significativo. In quella condizione di estrema debolezza e di senso di ‘distacco’, era come se si fosse risvegliato tutto il dolore interiore, l’angoscia, il senso di vuoto, accumulato nel tempo vissuto in carcere. Mentre, là, con mia sorpresa, l’incontro con le persone rinchiuse nei moduli più problematici, veniva vissuto con una inaspettata leggerezza.

     

    L’ACCOGLIENZA E L’OFFERTA – L’incontro ti espone ad una ferita. E poi? Basta essere solidali o c’è dell’altro? Cosa si porta entrando in carcere?

    Si può entrare per curiosità, ma si dura poco se si è centrati solo sui propri interessi. Si entra offrendo quello che si è, ma anche quello che si sa: il proprio sapere. Sicuramente c’è chi offre le proprie competenze: è il compito di molti operatori che lavorano nelle carceri e di molti volontari che aiutano a ricostruire una vita relazionale.

    Per me, sacerdote, mi rimangono, come un monito che mi dà una direzione, le parole pronunciate dal vescovo durante l’ordinazione sacerdotale: Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai; imita ciò che celebrerai. Conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore”.

    Queste parole nel tempo sono diventate la chiave di lettura per leggere ed abbracciare in una unità le innumerevoli lacerazioni che continuava a produrre questa esperienza. Ho cercato di ascoltare per accogliere le offerte di questo ‘popolo santo’ (un popolo che si cerca in tutti i modi di rendere ‘separato’ rispetto alla nostra vita civile) per poi offrirle, ogni giorno, nell’eucarestia, nel Simbolo dell’Offrirsi di Dio.

    È proprio la categoria dell’offerta che mi permette di dare unità all’esperienza di questi anni. E penso che questo possa valere anche per chi è stato dichiarato colpevole di un delitto e ne sconta la pena.

    Ma quali sono gli aspetti che, come tentazioni, ostacolano questa possibilità, come dice il Papa, di “tentare una nuova sintesi per il bene di tutti”. Cosa distrugge questa ‘visione’?

    La tentazione più grande, soprattutto per chi si è macchiato di gravi reati, è quella di identificarsi con il delitto stesso. Ricordo, in particolare, un episodio in cui, alla gioia di poter visitare alcuni detenuti maggiormente isolati. Uno di loro mi si avvicinò con queste parole: “Padre, no se da cuenta que entrò en una jaula con los leones? Come dire: siamo uomini di potere, pericolosi forti, capaci di sbranare, fare a pezzi e divorare. Insomma: delle fiere. Si identificavano con delle immagini di forza bruta. Candidamente gli risposi: “A mi, me parecen todos angelitos”. Davvero mi rapportavo a loro in questo modo, riconoscendoli come portatori di un messaggio fraterno nonostante la pesantezza dello sguardo che faceva trapelare le loro esperienze violente. Ne ero certo: custodivano anche un desiderio di bene, di fraternità, che non aveva trovato strada per esprimersi.

    Aggiungo un’ulteriore considerazione: in un luogo di detenzione, le limitazioni non interessano solo la realtà del movimento o quello delle relazioni, ma ‘le pareti’ fanno emergere un limite radicale che va al di là degli aspetti esteriori toccando il mondo delle significazioni. Mi spiego: Quando non si riesce a cogliere la complessità del mondo in cui vivi, allora, si prova a semplificarlo: lo si definisce fino a ridurlo alla logica binaria del bianco o nero, dell’amico o nemico; fino all’assurdo di stabilire chi è colui che merita di vivere e chi invece deve essere eliminato.

    Si limita l’interpretazione della realtà riducendo i suoi significati solo gli estremi.

    È il modo di pensare di chi commette un crimine, rendendo esplicita la sua incapacità di relazionarsi nella complessità della vita sociale. Qui entri il ruolo degli educatori. Penso che uno dei compiti principali di un sistema educativo carcerario sia proprio quello di favorire l’allargamento dello spettro di significazioni della realtà … fino a poterne riunire gli estremi che permettono di riconoscere, nel ‘nemico’, il fratello.

    Anche una visita inaspettata può entrare in questo compito. Sembrerà poetico, ma alle volte è bastato un sorriso che esprimesse il desiderio di stare con chi è in carcere per illuminare uno sguardo segnato dalla violenza e quindi dalla incomunicabilità.

    È così anche per chi incontro in carcere? Oltre al nostro modo di guardare la realtà, c’è qualche riscontro che confermi il desiderio di offrirsi?

    Sempre un detenuto cerca di offrirti qualcosa. E se non ha nulla? Il tempo in carcere non manca. Si offre il tempo: un tempo dedicato alla preghiera. Chi è in isolamento spesso entra in relazione con gli altri attraverso la preghiera. È il legame con Dio che fa da ponte con l’esterno. Si portano a Dio le necessità dei propri cari. Si prega per la loro protezione, ma l’orazione non si limita soltanto ai conoscenti. Mi è capitato spesso da parte dei detenuti di ricevere la richiesta del nome di qualche persona in difficoltà per cui pregare. Era visto come l’unico modo possibile di donarsi e di esprimere la propria gratitudine. Un modo per potersi sentire parte di una comunità e di dare il proprio contributo alla sua crescita.

    C’è poi il desiderio, come di ogni uomo, di offrire la propria vita a Dio: una vita da tanti giudicata; una vita che a ripercorrerla con la memoria risulta spesso fonte di frustrazione e di rabbia. Quella vita viene offerta a chi desidera accoglierla.

     

    UN LUOGO DOVE “RICONOSCERSI” NELL’UNITA’ – Come leggersi parte di una comunità? Innanzi tutto, si tratta di ritrovarla recuperando i gesti buoni che abbiamo compiuto nella vita e tutte quelle opere di bene di cui siamo stati oggetto. Ma soprattutto ritrovarli composti in una visione.

    Il Papa spesso parla spesso di guardare l’orizzonte, di leggersi in una visione che faccia unità di tutti noi. Della necessità di leggersi in una visione ne ebbi una maggiore consapevolezza la scorsa estate, grazie al racconto di un detenuto: “Eravamo un gruppo di brave persone, chi lavorava, chi studiava, insomma, appartenevamo a delle buone famiglie. Nell’arco di pochi anni ci siamo ritrovati ad essere un gruppo di criminali. Cos’è che ci ha trasformato in questo modo? E qui la sua lettura dell’esperienza criminale mi sconvolse. “Ci veniva offerta un’avventura. Una vita sopra le righe. Non si pensava a quello che si stava facendo. Si faceva”. Veniva data una visione!

    Nelle visite in carcere ho chiesto sempre con insistenza di poter mangiare nei moduli con i detenuti, soprattutto con chi, per storia personale, si è ritrovato a vivere in un regime di ferreo isolamento. Era necessario un segno che ci ricordasse che siamo parte di una stessa comunità, e il cibo mangiato in comune, non quello preparato per te a parte, lo comunicava nei fatti, senza tante parole. Mangiare ad una stessa tavola riconoscendoci bisognosi di uno stesso cibo. Una mensa che per me diventava inoltre segno fattuale di quella liturgica del banchetto Eucaristico.

    C’è bisogno di uno spazio dove ‘situarsi’ per ritrovare questi legami intessuti in una trama che ci racconti storie che ci danno una visione sulla vita.

    L’immagine dell’Ultima Cena di Leonardo, ritrovata presente in tante case dei messicani e tatuata in molti corpi, ci ha accompagnato in questo percorso. Una tavola imbandita in cui ci ritroviamo commensali del Signore, dove ognuno di noi porta il proprio cibo e lo condivide con quello degli altri.

    C’è bisogno di un luogo dove poter trovare ricomposti, direi trasfigurati, i legami lacerati. Luoghi in cui raccontare il proprio dolore, ma soprattutto dove poter ritrovare la propria offerta accolta in una Offerta più grande.