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Dalla giustizia alla fraternità: l’intervento di Valeria Collina

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  • Quando io e mio marito siamo arrivati in Marocco nel 1994 abbiamo deciso di non avere la televisione. Avevamo lasciato l’Europa per allontanare tutto ciò che poteva contaminare l’educazione islamica che volevamo per i nostri figli e la televisione – di contenuti islamici – non ne aveva molti, neanche in Marocco.

    La televisione però la si vedeva nei lunghi viaggi che facevamo durante le vacanze, nelle soste che facevamo alle caffetterie, dove i ragazzi trascinavano le loro giornate a bere the, incollati ai maxischermi; un canale era onnipresente Al Jazeera, 24 ore su 24 di informazione fatta di immagini potenti e di grande qualità tecnica ed estetica. Avrebbe martellato per anni i cuori e le coscienze dei giovani con i bombardamenti in Afghanistan, la guerra in Iraq, il carcere di Abu Ghraib, i bambini estratti dalle macerie di Gaza, le rivolte arabe, la Siria. Ma comunque la televisione sarebbe entrata anche a casa nostra l’11 settembre. Mio marito l’aveva piazzata nella sala e, per tutta la sera, ad ogni impatto degli aerei contro la Torre, gli sfuggiva un “Allah Akbar”, non di approvazione ma di sbigottimento, quasi incredulo che l’America – l’ultimo è più potente nemico dell’Islam – non fosse invincibile come sembrava e potesse pertanto essere colpito in quel modo. Poi, la televisione casa c’è rimasta e i miei due figli, come i loro coetanei italiani, si sono nutriti di cartoni e film americani, attentissimi a riconoscere il rumore dell’auto del padre per cambiare canale. Così, quando nell’inverno 2015 ho lasciato l’appartamento in cui abita abitavo con mio marito e mi sono trasferita con Youssef, mio figlio, in quello degli ospiti al piano di sotto, potevamo attingere con il suo computer al serbatoio di quello che avevamo visto in televisione, quando stavamo tutti insieme al piano di sopra. Erano stati anni complessi quelli, anni di violenze. Mia figlia se ne era già andata in Italia e io avevo deciso di partire in estate con gli Youssef al termine del suo anno accademico. Non avevo rimorsi a lasciare mio marito, non sarebbe rimasto solo, aveva deciso di prendere una seconda moglie. In quei mesi in cui io e Youssef siamo rimasti soli, lui trascorreva molto tempo con me e spesso mi riproponeva vecchi film già visti; solo quelli per ragazzi però. In quel periodo Youssef pretendeva da sé un gran rigore; lo intuivo dai suoi discorsi sulla religione – e voleva tenersi lontano da certe immagini e contenuti dei film. Così dopo i vari Monster, Mammut, Nemo, ha voluto mostrarmi due cartoni giapponesi d’animazione: L’attacco ai giganti e Il libro della morte. Il primo è ambientato in una città cinta da mura e a difesa dei giganti che la assediano; uno di loro riesce ad entrare ed uccide la madre del protagonista, divorandola sotto i suoi occhi. Forse anch’io ero una madre che Youssef pensava di non essere riuscito a difendere. Il libro della morte racconta di un block-notes fatto cadere sulla terra dal dio della morte. Il ragazzo che lo trova, scopre che basta scriverci sopra il nome di una persona per ucciderla. Userà questo potere per ripulire la società da assassini criminali, condannandoli a morte con pochi tratti di penna, giustiziera al di sopra delle leggi in una società che non sa difendersi dal dilagare del male. Youssef immaginava forse così i miliziani dell’Isis: giustizieri implacabili ma necessari al ristabilimento di una giustizia non più umana ma divina. Discussioni accesissima sull’Isis, sulla religione, sulla liceità della violenza erano cominciate da quando avevo visto nel suo profilo Facebook la bandiera nera del califfato. Sosteneva che quello che stava accadendo portava i segni della profezia profetica. I video di propaganda che mi mostrava raccontavano di distribuzione di farina e cibo, costruzione di infrastrutture, del bisogno di medici e tecnici. Stavano costruendo una nuova, perfetta società. Credo che per lui la Siria fosse una gabbia di costrizioni e regole che potevano renderlo sicuro, sicuro di non peccare. Non poteva scegliere se radersi o no, se corteggiare o meno una ragazza. Là la barba era obbligatoria e la promiscuità bandita. La Siria era anche il luogo in cui portare in salvo sua madre, lontana da un Islam mal praticato; era la terra del vero, del puro Islam. Infatti un giorno mi propose di andarci insieme; invece di giugno del 2015 mi sono fatta accompagnare in Italia.

    Questa scrittura è un po’ particolare: perché parlare di immagini, perché raccontare film e cartoni animati? Ma perché dopo quello che è accaduto, sono stata incapace di capire le radici di questo, di cogliere dei segni in quello che gli avevo visto dire e fare. Quindi ho cercato in quello che poteva essere il suo immaginario, che io avevo condiviso perché insieme a lui vedevo queste cose; alcune di queste cose hanno rappresentato le radici di quello che poi l’avrebbe portato a compiere quello che ha compiuto.

    Visto che i tempi sono stretti, concludo con quello che ultimamente un caro amico giornalista, facendomi riflettere, mi ha fatto tirare fuori rispetto a una domanda che mi viene posta spesso, quella sul perdono. Mi chiedono: “ma tu hai perdonato Youssef?”. Io non posso che rispondere che non sono io che devo perdonare. Le cose che io posso perdonare a Youssef sono cose molto piccole: il fatto che lui non c’è più, lui non è più con me. Prima si parlava con la Presidente della possibilità di dimenticare un crimine fatto. Io ho dimenticato, cioè non ho registrato nella mia testa il crimine che mio figlio ha fatto – troppo grosso – però ho ragionato sul perdono e di questo, di nuovo, vi leggo alcune cose.

    “Il risentimento è una gabbia dentro la quale rischi di dibatterti senza potermi uscire, consumandoti nell’ingorgo doloroso delle tue passioni tristi e nell’attesa della vendetta o di una giustizia costruita secondo la tua misura. Può il risentimento lasciare spazio al perdono, a questa parola che qualcuno ritiene oggi persino impronunciabile? C’è un piccolo perdono, frutto di un atteggiamento utilitarista di chi riesce a dimenticare il male che l’altro gli ha fatto ma contemporaneamente dimentica l’altro e pensa alla propria piccola tranquillità. In fondo, è un atto di sopravvivenza per non soccombere al dolore. E poi c’è il grande perdono in cui il male compiuto dall’altro non è l’ultima parola sul mio rapporto con lui, è frutto di uno sguardo d’amore; continuo a guardare l’altro e desidero per lui lo stesso bene che desidero per me. Un amico sacerdote mi ha regalato un quadretto con il testamento spirituale di Cristian De Chergé, il religioso rapito e poi ammazzato insieme a sette confratelli nell’abbazia di Tibhirine, in Algeria. Nel suo testamento, due anni prima della sua fine, immagina di poter perdonare con tutto il cuore, dice, chi lo avesse ucciso e chiede di poterlo ritrovare in paradiso concludendo con queste parole: “anche a te, amico dell’ultimo minuto che non avrei saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo addio nel cui volto ti contemplo e che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, padre nostro di tutti e due”.