Trascrizione da video non verificata dall’autore
Il discorso che ha tenuto il Generale Francesco Paolo Figliuolo lo scorso 23 settembre al simposio organizzato dalla Fondazione Fratelli tutti, in collaborazione con la Basilica papale di San Pietro.
Buon pomeriggio a tutti, mi fa piacere condividere con voi qualche riflessione e vedere religiosi, laici, persone di età diverse tutti assieme qui. Ringrazio Padre Occhetta; il mio ringraziamento di cuore va al Vicario generale di Sua Santità della Città del Vaticano, Cardinale Mauro Gambetti, che mi ha invitato qui concedendomi il privilegio di parlare a questa platea, confrontandoci sul tema della costruzione della fraternità della pace. Ovviamente le mie sono le riflessioni di un ufficiale, un comandante, di un uomo che ha avuto il privilegio di servire l’Italia, avendo le responsabilità di uomini e donne.
Una parte autentica della mia vita militare, al pari di tantissimi uomini e donne in uniforme, l’ho servita in aree del mondo dove ci sono persone che soffrono per situazioni di conflitto armato perché appena cessato, oppure per situazioni di grave instabilità dove violenze e terrorismi la fanno da padrona e quindi c’è bisogno di una forza militare che vada in qualche modo a fermare questi conflitti che nascono da fattori socio-economici, politici; spesso sono alimentate da insopportabili disuguaglianze e da odio etnico e raziale. Noi abbiamo giurato di servire in armi il nostro Paese e la nostra comunità con disciplina e onore, seguendo un ideale basato su valori come la lealtà, l’obbedienza, la generosità, lo spirito di sacrificio. Nella caserma degli Alpini di Torino dove ha sede la brigata taurinense che ho comandato fra il 2010 e 2011, c’è un monumento ai caduti con un’iscrizione significativa “la fede per credere, il coraggio per agire”. Parole che risuonano ancor di più ripensando alla figura di San Maurizio, partono degli Alpini, celebrato proprio ieri (ndr. 22 settembre), il quale fu esempio di abnegazione e coraggio di non rinunciare alla fede e ai suoi ideali.
Quindi, il coraggio della scelta. Noi militari, come ho detto, siamo impegnati molto per cercare di portare un po’ di serenità in questi luoghi del mondo dove spesso, come ha detto Papa Francesco, c’è una terza guerra mondiale a pezzetti. Se guardiamo la situazione mondiale in questo momento ci sono circa 7500 militari italiani, che operano alle mie dipendenze, e che sono al servizio della sicurezza e stabilità in 26 paesi sottostanti alle leggi delle Nazione Unite, Unione Europea, o anche bilaterali. I nostri compiti sono tanti, variegati. Sicuramente portare in modo imparziale la sicurezza, senza la quale nessuna convivenza pacifica è possibile o duratura, quindi disinnescare crisi e conflitti, lavorare per riannodare i fili di convivenza travolti dalla guerra, provvedere ai bisogni più urgenti di popolazioni sofferenti che chiedono protezione, disarmare e bonificare il territorio, spesso pieno di ordigni inesplosi, formare le forze di sicurezza locale, affinché possano lottare contro le violenza e il terrorismo, favorire la ricostruzione promuovendo presso le istituzioni neonate il buon governo, i valori reali di democrazia e di coesistenza pacifica e il rispetto dei diritti umani. Questa è un’opera complessa che poggia sulla grande preparazione professionale, su un’organizzazione attenta e sull’umanità riconosciuta universalmente al militare italiano, qualsiasi sia il suo grado. Devo dire, è veramente apprezzata da noi comandanti l’opera dei cappellani militari – non lo dico perché siamo in questa sala dove sarebbe facile accogliere ovviamente un plauso – ma vi posso dire che i nostri soldati spesso, quando sono in condizioni di lontananza dai propri affetti, perché poi ognuno di noi chiaramente dietro l’uniforme ha un ruolo umano, la propria fede e i propri affetti, si stringe spesso attorno ai cappellani che fanno davvero un’opera meritoria e ci fanno sentire un po’ tutti a casa.
È importante l’umanità che viene espressa attraverso la solidarietà, il rispetto della cultura altrui. Il militare italiano ha questa caratteristica: ascolta e parla con tutti, e quando lo fa, guarda negli occhi le persone; vede in esse esseri umani, non colori, pregiudizi; noi cerchiamo di operare in questo modo, poi è chiaro che ci può essere sempre qualche eccezione, però vi posso garantire che questo è un segno distintivo e fa dell’Italia quello che viene definito un soft power perché è chiaro, noi non siamo una superpotenza. Noi abbiamo un’organizzazione efficiente ma i nostri numeri sono limitati rispetto ad altri, eppure l’Italia viene apprezzata nel mondo grazie a questo modo di fare.
Ascolto e dialogo, uniti a fermezza e determinazione, quando ce n’è bisogno, sono la cifra dei nostri valori. Noi facciamo attività di peacekeeping, un’eccellenza di cui l’Italia può andar fiera, un esempio che contribuisce non poco alla sua reputazione nel mondo. A me vengono in mente tanti esempi di vita che ho trascorso: penso ai Balcani, quando nel 2000 (pensate che la guerra civile che portò poi a scatenarne una in armi è del 99 con l’intervento della Nato; tra marzo e giugno ci fu un bombardamento che portò anche bombardamenti in Serbia e furono 78 giorni che rappresentarono un caso di diritto internazionale e di geopolitica, perché si intervenne prima della risoluzione Onu del giugno 99, quindi fu ex post che questo intervento ebbe le sue fondamenta giuridiche). Nel 2000 – dicevo – con la mia unità di artiglieria di montagna avevo il compito di garantire quel poco di libertà di movimento, ma sicuramente la sicurezza, di un paese di circa 1000 abitanti che di fatto era un’enclave serba nella zona di Pec Peja. Fu davvero una grande esperienza per tutti noi soprattutto dal punto di vista umano. Comunemente uno pensa: “i kossovari albanesi oppressi, i kossovari serbi oppressori”, ma poi quando una persona si cala nella parte e va proprio sul territorio, capisce che il mondo non è bianco e nero ma ha tantissime sfumature. Che cosa stava capitando lì? Poi lo disse benissimo Enzo Biagi che a Pasqua del 2000, tra i suoi giri, passò con me una mezza giornata a vedere le aree più indicative e notò che l’uomo dava sfogo – in quel periodo – al peggio di sé. La guerra civile, quindi, rappresenta davvero un qualcosa di bestiale, di terrificante. Porta gli istinti peggiori dell’uomo. Che cosa capitava? In questa città di Pec i vicini di casa, che fino a qualche giorno prima bevevano assieme caffè o un bicchiere d’acqua, quando c’è stata la guerra, hanno occupato la casa del vicino, cose terribili. Sostanzialmente, queste 1000 persone vivevano isolate e denigrate da tutti perché erano kossovari serbi e dopo, anche lì c’era la scala umana: i kossovari albanesi in posizione di comando, poi c’erano i kossavari serbi, poi c’erano i rom e altre etnie; c’era sempre un ultimo. Si creavano cose incredibili, tipo tombe profanate per i motivi più vari: perché – per esempio – i kossovari albanesi pensavano che lì dentro c’era un giovane che aveva aderito all’esercito serbo.
Poi sono tornato nel 2014 e ho trovato una situazione diversa: non si vedeva più quello che si vedeva allora, come i bombardamenti nella piazza principale; sembrava quasi una situazione di normalità, lì ho avuto il privilegio di comandare la forza multinazionale, quindi da un comandante di un’unità di 250/300 persone, comandavo una forza multinazionale che era allora quasi 5000 uomini e donne appartenenti a una trentina tra paesi NATO e paesi amici alleati. Era quindi una situazione migliore, la guerra non c’era più, c’erano tensioni inter-etniche dovute al fatto che la questione, ancora oggi irrisolta, ha bisogno di tempo, dialogo, maturità da parte delle classi dirigenti che vanno formate e che devono avere lungimiranza, avendo loro una visione del futuro del proprio paese. Un fenomeno di quel periodo che mi è rimasto molto impresso è stato quello dei giovani, bravi e abbastanza istruiti che però avevano perso totalmente la fiducia del futuro, ovvero ritenevano che non ci fosse possibilità di ascensione sociale nel loro paese perché di fatto quella classe dirigente era legata al potere, all’esercito di liberazione del Kosovo, l’UCK, che soffocava qualsiasi diversità, non era inclusiva e si auto perpetrava; quindi c’è stata un emigrazione verso l’Europa e in un Paese di circa 2 milioni di persone, tra il 2014 e il 2015 sono andate via un centinaio di migliaia di persone, la maggior parte delle quali faceva parte della classe attiva del paese. Se non si scava nelle motivazioni, il perdono però è veramente difficile. Una volta il presidente kosovaro mi disse di essere contento poiché il Paese stavano meglio rispetto al 2014 poiché stavano scordando dei brutti avvenimenti ma che non erano ancora pronti al perdono. Anche qui, il fattore tempo e le azioni che possono fare le istituzioni come l’Unione Europea e la NATO sono importanti, ovvero cercare di portare benessere, lavoro. Io essendo una persona semplice, a volte mi domando se fosse stato più efficiente investire sulle famiglie dei territori, piuttosto che su organizzazioni non coordinate e sinergiche; la mia è una riflessione magari non tanto appropriata che mi piaceva condividere oggi. Io credo che sia vero che la storia si ripete, motivo per il quale i comandanti e gli operatori delle organizzazioni, governative e non, devono studiare e essere preparati. Ricordo che ci fu un episodio nell’aprile 2015 vicino Mitrovica, tristemente ricordata per il suo ponte che divide invece che unire, di un ragazzo albanese che, insieme ai suoi amici, cercò di rubare un cane da un canile di proprietà di serbi, i quali rincorsero i ragazzi, uno di questi cadde nel fiume e non lo ritrovarono più. Ho pensato che l’accaduto fu simile a ciò che successe nel 2004 a Mitrovica, ossia che furono ritrovati 3 bambini albanesi annegati in un fiume o che li avessero annegati nel fiume Iba. Questa notizia scosse la popolazione, ci furono violenti scontri che generarono 19 morti, oltre 500 feriti, 23 edifici di culto religioso kosovaro-serbo bruciati. Quando ci sono queste cose bisogna poi cercare di decidere rapidamente e intervenire ma alla base dell’intervento, cosa c’è stato? Il dialogo, la comunicazione efficace alle comunità e alla famiglia, e fare in modo che le notizie non fossero manipolate per creare cose peggiori. Grazie a questa opera di mediazione, fatta sia dai militari italiani sia svizzeri, presenti in quel settore, fece sì che i rappresentanti di Kfor hanno partecipato al funerale di questo ragazzo, trovato dai sommozzatori.
Alla gente viene da domandarsi il perché della presenza dei militari svizzeri nel settore serbo con i militari serbi; anche a me veniva la stessa curiosità quando li avevo alle dipendenze finché non ho appreso che in Svizzera c’è molta emigrazione sia dal Kosovo sia dalla Serbia; quindi chiedono di venire in missione, conoscono spesso la lingua.
Voglio condividere brevemente con voi anche l’esperienza in Afghanistan, dove noi poi, per decisione più o meno unilaterale presa dagli Stati Uniti, ci siamo ritirati. Però lì qualche seme l’avevamo lanciato, nella ricostruzione, nel portare valori democratici, cercare di dare un ruolo alle donne che erano neglette, non potevano studiare, e abbiamo fatto tanti progetti – io sono stato a Kabul ma poi specialmente Herat – come l’inserimento delle donne nella società civile, addirittura progetti sponsorizzati e finanziati dal Ministero degli Esteri e della Difesa, per garantire il successivo reinserimento delle donne detenute. Oggi noi abbiamo moltissimi progetti in queste nazioni: in Somalia sono stati ristrutturati diversi ambulatori della capitale; in Libia sono stati stanziati fondi per assistere la sanità pubblica attraverso quella che noi chiamiamo la Cooperazione civile militare; progetti per l’istruzione in Niger, che in questo momento è attraversata da un colpo di stato militare; abbiamo di recente donato computer, proiettori, stampanti, impianti audio e altri ausili a diverse scuole; progetti per l’inclusione delle donne, spesso discriminate ed escluse dal contesto sociale ed economico; abbiamo realizzato questi progetti prima in Kosovo poi in altri stati specie in Africa; iniziative di tutela del patrimonio culturale in Libano, nel 2021 abbiamo sostenuto la riqualificazione del sito archeologico di Tiro.
Qual è l’ingrediente essenziale? Lo spirito di squadra; coinvolgere tutti gli attori, le istituzioni, le comunità – confrontandosi anche con toni accesi ma sempre con l’idea di trovare un punto d’intesa. E questo è un metodo che ho cercato di applicare anche durante la mia esperienza di Commissario per l’emergenza covid. Una campagna vaccinale senza precedenti che ha portato il Paese fuori da una gravissima crisi sanitaria, economica e sociale ed è stato possibile grazie alla collaborazione per il bene comune, a uno spirito di coesione. L’attenzione che ho voluto portare e mettere in priorità è stata quella sempre delle fasce più deboli, di quelle che potevano avere gli esiti peggiori nel caso avessero incontrato questo virus infido e cattivo, quindi la priorità ai deboli, ai fragili, agli anziani che sono poi le nostre radici. Questo è quanto fu stabilito con l’ordinanza – ricordo il numero – numero 6 dell’aprile 2021, fortemente voluta dall’allora presidente Draghi con cui mi confrontai. Poi quella che ho chiamato la Vaccinazione etica, in favore degli invisibili: facemmo un progetto pilota con la Comunità di Sant’Egidio a Roma, ma poi fu ampiamente replicato da altre parti. Questa è una delle più belle pagine, dal mio punto di vista, di quel periodo, ma anche in quell’occasione i nostri militari hanno operato in tanti campi dal supporto logistico, alla consegna e custodia dei vaccini. Ma quello che a me è molto piaciuto è stata l’intuizione di mandare delle squadre mobili nelle regioni più compartimentate, che avevano più difficoltà a fare delle vaccinazioni. Poi magari quelle che possono sembrare un numero minimo rispetto a quelle effettuate nei grandi hub per noi rappresentavano comunque tanto poiché andavamo a vaccinare persone che o non potevano muoversi, perché magari allettate, o perché non alfabetizzate dal puto di vista informatico, o per altri motivi. Noi vediamo noi stessi in relazione a ciò che ci circonda, mentre dovremmo espandere il nostro orizzonte. Anche in Italia c’è gente che vive in posti sperduti e magari non sa che è importante vaccinarsi, o non poteva accedere alla app per prenotarsi, quindi quella è stata un’altra bella pagina. Poi, dal mio punto di vista, era anche un modo per fare una strategia di lungo periodo, ovvero vedere i militari anche con quest’occhio perché spesso ci si interroga sull’utilità di tali figure. C’era la voglia di fare qualcosa di buono. L’esperienza quindi sul campo aiuta a comprendere, conoscere e avere empatia per chi è in difficoltà.
Adeso con quest’ultimo incarico, abbinato a quello che già ho, mi reco spesso nelle terre colpite dall’alluvione. L’intenzione è di incontrare e capire chi ha patito perché è chiaro che noi dalle carte sappiamo però – vi posso assicurare – che quando si incontra questa gente straordinaria, dignitosa, operosa, quello che riceve di più sono io. Al mio rientro sono molto più motivato per cercare di fare bene nel più breve tempo possibile.
Concludendo, sarebbe bello vivere in assenza di conflitti, chiaramente, però noi dobbiamo cercare di costruire questa condizione. Come militari noi lo facciamo cercando di portare sicurezza perché essa, a mio avviso, è una precondizione, è anche per il benessere che tutti dovrebbero avere e condividere. A mio avviso, gli strumenti sono quelli sicuramente di dover studiare, inquadrare bene i posti in cui si va ma soprattutto ascoltare, comprendere e confrontarsi senza pregiudizi, in maniera aperta, avendo molta pazienza.
Io parlo spesso della pazienza strategica; come la goccia, quella che scava anche la pietra, dicevano gli antichi; quello va fatto, ossia uno non si deve arrendere: deve ripetere e, se l’altra persona non capisce, come militare, ho anche l’arma ma io la ho perché devi capire che certi comportamenti non vanno fatti quindi piano, piano, bisogna cercare di fare un cammino di questo tipo. Sarebbe ovviamente bello avere la fratellanza, il mio pensiero va a ciò che accade in Ucraina, una guerra sanguinosa alle porte di casa. Io penso che nessuno di noi prima di febbraio 2022 avrebbe potuto pensare questo scenario. E’ un fatto gravissimo e credo che tutti quanti stiamo cercando e cercheremo di fare il massimo affinché questo di fermi.