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La costruzione della fraternità della pace: l’intervento di Sr. Rita Giaretta

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  • Leggi la testimonianza integrale della religiosa, impegnata nella Rete Antitratta Usmi, Taitha Kum Italia, e fondatrice Comunità Casa Rut.

    Grazie di questa significativa opportunità offertami di parlare non solo a nome delle religiose e degli operatori e volontari laici impegnati nella rete antitratta Usmi, ma anche e soprattutto a nome delle tante giovani donne migranti che hanno vissuto o che stanno vivendo ancora oggi l’inferno della tratta, sia sulla strada che nell’indor…. Un crimine contro l’umanità, come l’ha definito Papa Francesco.

    Penso alla mia vita di donna, di consacrata che si è fatta scelta e missione, impegno e lotta, accoglienza e intreccio con la vita di queste giovani donne, spesso incinte o con bambini piccoli, anche minorenni, avvinghiate nella rete della tratta; prima a Caserta – quasi 25 anni – dove insieme ad altre consorelle, abbiamo dato vita a Casa Rut, un luogo di accoglienza e alla Coop. Sociale newHope; e ora qui a Roma, nel quartiere Tuscolana/Don Bosco, dove da quasi tre anni, insieme a una consorella e ad alcune giovani che desiderano condividere un “nuovo sogno di fraternità e amicizia sociale” (Enciclica Fratelli tutti 6), abbiamo dato vita a Casa Magnificat nel desiderio.

    In Fratelli tutti (FT) 233 si afferma che: La promozione dell’amicizia sociale…implica riconoscimento, avvicinamento e incontro con le tante realtà impoverite, vulnerabili, marginalizzate da un sistema che rischia di mercificare tutto, producendo scarti umani… e pertanto impegno instancabile di ognuno e di tutti nel riconoscere, garantire e ricostruire concretamente la dignità, spesso ignorata, delle nostre sorelle e dei nostri fratelli, perché possano sentirsi protagonisti del proprio futuro e partecipi del bene comune”

    Dalla mia lunga esperienza accanto a queste giovani donne sento di dire che anche su questo dramma, “occorre verità… che è una compagna indispensabile della giustizia e della misericordia. Perché verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi… Verità è sapere, sentire, che ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nel corpo dell’umanità, una ferita aperta nella carne di Cristo… e tutto questo ci riguarda, sì, tocca anche noi (FT 227).  Perché anche noi, in qualche misura, con più o meno consapevolezza, siamo parte e solidali nel male.

    Posso dire che sono state proprio loro, queste giovani donne: Joy, Jumi, Racheal, Mirela, Blerina, Vera, Blessing, Natasha… che mi hanno provocato a guardare e a ‘toccare’ le fragilità, le tante ferite che abitano la loro vita, ma anche a riconoscere le nostre ferite, che spesso nascondiamo o non vogliamo vedere. Sono loro che mi hanno insegnato a non sentirci noi le salvatrici, le buone, le migliori, quelle e quelli che stanno dalla parte giusta, magari con la scusa di essere di Dio perché battezzati, praticanti, o religiose, illudendoci così di poter essere cristiani senza essere umani. Almeno per me posso dire che sono state proprio loro, queste giovani donne prostituite, nostre sorelle, a scuotere la mia vita di donna e consacrata, a risvegliare la mia umanità e a tenere viva, accesa e appassionata la mia fede.

    Da oggi non ti chiamerai più Joy, ma Jessica, farai soltanto quello che dico io –  racconta Joy, giovane nigeriana nel libro scritto da Mariapia Bonanate “Io sono Joy” – Un grido di libertà dalla schiavitù della tratta, con la prefazione di papa Francesco.

    Mi avevano rubato tutto. Il nome, la dignità, il corpo, l’anima, la libertà, il futuro. Ero una delle migliaia di schiave, vittime della tratta, che vivono nei sotterranei della storia.

    E Jumi, arrivata al 5° mese di gravidanza: Quando la polizia mi ha portata a Casa Rut, non mi sentivo più una persona ma come un animale; mi sentivo brutta, sporca, non sapevo più chi ero, solo buio dentro di me, solo tanto dolore e tanta rabbia.

    Ecco, scegliere di abbracciare la vita di queste donne ha voluto dire, come ci ricorda FT 225, di essere disposte a mettere in atto percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, ma anche avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia… per costruire insieme, passo dopo passo, un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale.

    E questo ha chiesto a noi: anzitutto, il coraggio di uno sguardo.

    Mi ha sempre colpita l’affermazione di Simone Weill: Ciò che salva è lo sguardo. E sempre la Weill aggiungeva che la compassione e la gratitudine discendono da Dio, e quando vengono donate attraverso uno sguardo, Dio è presente nel punto in cui gli sguardi s’incontrano.

    Che bello! Dio si fa presente negli sguardi che s’incontrano. Sguardi che non giudicano, che non invadono le coscienze, che non inchiodano le persone al loro passato (ex prostituta, ex carcerato, ex e noi, dobbiamo dirlo, siamo bravi ad appiccicare ex) ma nemmeno alle loro paure, alle loro rabbie, ai tanti sensi di colpa; sguardi che sanno far emergere pazientemente le attese e i desideri profondi sotterrati dal male subito e dal dolore che urla muto, scavando nel bene che rimane comunque in ogni cuore. Sguardi che sanno scommettere su ognuna di loro, sulle sue potenzialità più celate. Sguardi che ti fanno sentire persona, donna capace di rimetterti in cammino e percorrere insieme strade di riconciliazione, di liberazione e di pace. Bellissimo e appropriato questo verso poetico di Mariangela Gualtieri: L’amore benedico/ che d’ognuno di noi alla catena /fa carne che risplende.

    L’audacia di voler bene – Volere bene è riconoscere l’altro/a con il cuore, e spaccare quella corazza che ognuna di queste donne si è costruita per salvarsi dal dolore, che è troppo. San Francesco ricordava ai suoi frati che non basta, anzi è insufficiente fare del bene, perché fare del bene appartiene all’esteriorità, spesso al nostro bisogno di immagine, di riuscita, di sentirci a posto, mentre ciò che conta, che vale, che ‘tocca’ le vite, che le trasforma, è il voler bene. Questo appartiene all’affettività, all’interiorità, al cuore; e volere bene crea riti e costruisce legami, relazioni; e questi non solo nutrono, ma si prendono cura della vita, di tutto e di tutti e diventiamo preziosi e unici l’uno per l’altro.

    Ricordiamo tutti e con emozione il racconto del Piccolo Principe: è il tempo che diamo alle persone che le rende preziose. Sì, è il tempo che diamo, carico di cura, che porta queste giovani donne a sentirsi riconosciute, rispettate, amate e riconsegnate al futuro. È questo voler bene che porta le ragazze a sentirsi scolpite ad una ad una nel nostro cuore di sorelle e madri, come direbbe S. Angela Merici, nostra ispiratrice.

    La bellezza di fare casa – Quando una persona non si sente riconosciuta, chiamata per nome, rischia di rimanere sempre prigioniera dell’estraneità.

    Riacquistare l’autostima non è facile, racconta Blessing nel suo libro Il coraggio della libertà – Una donna uscita dall’inferno della tratta (Edizione Paoline).

    Ci vuole tempo e ci vuole qualcuno che ti segua. Da sole è quasi impossibile. Casa Rut è stata per me una vera famiglia piena d’amore. Qui non sono importanti i legami di sangue. Questi, anzi, a volte possono essere una catena che ti fa del male. Qui, invece, ho vissuto legami fondati sul bene e sul volersi bene, sul rispetto, sulla fiducia e su un progetto condiviso di vita buona. Ho sentito veramente che volevano il mio bene, senza altri interessi e senza chiedere nulla in cambio, se non responsabilità e impegno.

    Sì, ha ragione Papa Francesco nel ricordarci, che la nostra società vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa (FT 230).

    La creatività feconda di gesti e di azioni liberanti – I gesti essenziali sono quelli che servono per vivere, evocano il pane, la casa, la confidenza, l’amore, la speranza: è questa un’affermazione molto bella della teologa A. Potente.

    In particolare le tante ragazze nigeriane accolte, quando arrivano, tra le poche cose che hanno con loro quasi sempre hanno la Bibbia – Holy Bible. Questo ci dice quanto è importante per la loro vita, per il loro cammino, anche nel gestire i tanti conflitti, la Parola di Dio; hanno bisogno di credere e di fare esperienza di Dio, di toccare la sua Misericordia, di sentire che sono abitate dallo Suo Spirito buono che può curare e vincere ogni forza del male. Pensiamo alla forza devastante che ha in loro il rito Woodoo.

    Ecco allora l’importanza di gesti che si fanno ‘riti’, portando in sé la forza di una ‘benedizione’ in chi li riceve. Come il dono del rosario accompagnato da un segno di croce sulla fronte e da una Parola: tutto posso in Colui che mi dà forza o non temere io sono con te. Rosario che poi la stessa ragazza si mette al collo per sentire di essere ‘toccata’ e accompagnata dalla forza di quella Parola.

    O come il dare loro vestiti, biancheria intima, sempre nuovi. Quando varcano la soglia della casa che le accoglie sentono di abitare un corpo fracassato, umiliato, derubato della dignità. Si sentono sporche, brutte, usate da tutti, da uomini giovani e vecchi, puliti e sporchi. Consegnare loro abiti nuovi, sempre nuovi, con le etichette e imbustati, è come donargli un abbraccio d’amore, mettere un balsamo sulle loro ferite. Riconoscerle nella loro dignità di donne. Pensiamo alla parabola del Padre misericordioso (Lc 15,11-32).

    Gesti che dicono a tutti noi, in maniera forte e autorevole, che queste donne non sono le ‘poverine da aiutare’, da assistere, come spesso rischiamo di fare, attraverso quelle forme di assistenzialismo, ancora così diffuse anche dentro le nostre chiese e le nostre comunità; che sono dei cappi al collo che non promuovono e non liberano le persone.

    Gesti ma anche azioni liberanti che aprano strade di emancipazione sociale perché ogni donna torni ad essere libera protagonista della propria vita.

    E’ il grande valore che ha avuto e che continua ad avere la Coop. Sociale newHope, con il laboratorio di sartoria etnica e lo Store newHope. Non la beneficienza ma solo il lavoro restituisce a pieno la dignità, affermava la prima presidente, Radegonde. Queste donne, da invisibili, da scarti sono diventate delle imprenditrici. Donne che in un territorio così depresso, com’è quello casertano, hanno saputo dare uno ‘schiaffo’ alla rassegnazione e all’indifferenza aprendo vie possibili e concrete di riscatto e di rinascita.  Donne insieme che hanno creduto che i grandi sogni, che danno fecondità, pensano con il NOI (Papa Francesco) ma anche e soprattutto che è possibile oggi, un’economia solidale che metta al centro il bene della persona, diversa dall’economia di mercato che fa del profitto il suo unico fine.

    Ogni manufatto creato, infatti, ha un senso e un significato, perché dentro c’è tutta la creatività e la forza di chi lo ha realizzato: una forza di giustizia, una forza di vita, una forza di libertà di chi vuole mettere le ali per andare oltre il passato e guardare avanti. Una forza di partecipazione attiva alla vita della città, del nostro Paese, da donne ‘in piedi’, da cittadine ‘in cammino’, responsabili e custodi del bene comune.

    Nelle ore libere dagli studi, lavoravo nella cooperativa sociale newHope – racconta Joy nel libro, Io sono Joy –   una sartoria etnica fondata da Casa Rut dove s’impara non solo a cucire degli splendidi manufatti con le stoffe wax africane, ma a “trafficare la speranza” e a ritessere la propria vita.  Il passato è lì, sullo sfondo buio delle tempeste che ho attraversato. Non posso dimenticarlo, ma guardo davanti a me, per costruirmi, anche con l’aiuto di persone che Dio stesso mi ha posto accanto e che mi vogliono bene, un’esistenza che realizzi i miei sogni: continuare gli studi. Ma soprattutto aiutare altre donne che soffrono a ritrovare la dignità e una vita buona; trovare uno spazio nel mondo in cui tirare fuori tutta la bellezza che ho dentro e che ciascuno porta in sé. Me lo ripeto ogni giorno, mentre mi occupo del newHope Store, il punto vendita dei prodotti della cooperativa. E’ un piccolo gioiello di armonia architettonica, una festa di colori. Voglio ripartire da questa bellezza, che rende forti, coraggiose, creative. Oggi sono ritornata a essere il significato del mio nome: gioia. Gioia di vivere, di amare, di donare, d’inventare ogni giorno la vita e la speranza.

    All’inizio ho detto che su questo dramma della tratta occorre verità e concludo dicendo che fare verità è anche osare di chiederci: perché così tanta domanda? Perché tanti maschi hanno bisogno di comprare il corpo di una ragazza, a volte ancora bambina?

    Sì, è giusto fare di tutto per aiutare queste ragazze a ritrovate dignità e libertà, ma sono convinta che è ancor più necessario e urgente attivare processi che formano l’uomo a relazioni nuove, al rispetto, alla gestione serena e costruttiva della sessualità, dell’affettività, per sé e per la donna.

    Non è più rimandabile un forte impegno formativo, educativo, umano e di sensibilizzazione da parte di tutti. Al fondo di tutto ci deve essere il riconoscimento dell’altro/a come persona con la stessa dignità e gli stessi diritti.

    Quando un uomo chiede a una donna, a una ragazzina, “quanto costi?” riducendola a oggetto, a merce usa e getta, non solo sfigura l’umanità della donna ma disumanizza anche sé stesso.

    Purtroppo devo riconoscere che la chiesa, in tutto questo, è ancora troppo silente. Forse perché ancora, per tanti aspetti, impastata in una mentalità maschilista, patriarcale, ma oso sperare che saprà trovare il coraggio e l’audacia di mettersi in gioco, in maniera libera e liberante.  il Vangelo che lo chiede! È lo Spirito che ci spinge a spalancare le porte del cuore, a sconfinare per unire le forze e creare ‘alleanze’ – e non solo fare rete, a vivere la “convivialità delle differenze” –  a saper partire dagli ultimi, sempre, per costruire insieme la fraternità della pace e dell’amicizia sociale: mai più schiave, mai più schiavi, ma “sorelle e fratelli tutti”.